E’ una gran disgrazia che il 10 settembre 1667  un gran blocco sia caduto su Melchiorre Cafà, mentre, nella fonderia di Santa Marta a San Pietro, lavorava a due statue colossali in bronzo, destinate alla chiesa di San Giovanni a la Valletta[1]. E’ morto così, a trentuno anni.  Ha vissuto poco e lasciato, a Roma, poco di compiuto[2]. A Roma, dov’era arrivato da Malta intorno al 1660, di finito c’è solo l’Estasi di Santa Caterina, nella chiesa di Santa Caterina a Magnanapoli. Due protrusioni, un’età che vivo con stupore, senza che per questo lei si scoraggi e cessi di ricordarsi a me, e l’assuefazione a vedere ovunque capolavori , fanno sì che di solito io entri solo nelle chiese dove non bisogna salire le scale. Ma l’astinenza di opere, ovvero d’idee, da Covid, mi ha spinto oggi a entrare a Santa Caterina e scoprire il capolavoro di Cafà.  Per prima cosa mi ha colpito l’indipendenza di questo giovane uomo, quanto aveva masticato di Algardi e Bernini per poi ricacciarlo fuori fatto suo, originale e nuovo[3]. A questo serve il passato, a fare cose nuove, ma bene. Ek-stasis, stare fuori di sé, e Caterina è radicalmente altrove, perché sebbene le numerose estasi la sorprendessero spesso poggiata a un pilastro ottagonale nella chiesa del suo convento – il genere di suggerimento che non sfugge a un artista, come dimostra il quadro di Pompeo Batoni –  Caffà sceglie di situarla in cielo tra le nuvole. Fa il cielo di lapislazzuli, le nuvole di Carrara, lavorate alla gradina, perché la superficie striata non lasci scivolare la luce e riveli la massa aggettante, e altre nuvole piatte,  di un alabastro bruno, perché vicino scintilli, inondato dalla luce divina, il viso della santa. Per Bernini quel cielo  era una scelta obbligata, Santa Teresa lo dice proprio che era lì che il serafino la trasportava; invece Caterina in cielo ce la porta Cafà, per farci capire che quando, visitati da un dio, entriamo in contatto con “il piano di sopra”, questo mondo qui, coi suoi pilastri ottagonali, svanisce. Passando dal naturale al sovrannaturale, dimentichi del tempo e dello spazio degli uomini, che proprio non ci sono più, nemmeno a  commentare, come fanno i Corner col Bernini, la carne diventa perfetta, incorruttibile, e allora anche le stimmate di Caterina spariscono. In un’estasi il primo ingrediente è lo sguardo rivolto verso l’alto. Ma c’è alto e alto. Muta e contemplativa è la Cecilia di Raffaello, il corpo inerte, le mani impegnate solo a sorreggere il suo attributo.  Nella  perduta Maddalena del Caravaggio il corpo è ancora immobile, ma la testa riversa,  la bocca e gli occhi socchiusi  esprimono l’avvenire di uno sconvolgente colloquio con Dio, inudibile agli altri; le mani stavolta partecipano del clima del quadro, giocando sull’equivoco tra la preghiera e il rinchiudersi nel mondo di dentro. Col Barocco mani, corpo e drappeggio dovranno esprimere l’esaltazione dell’anima. Come leggere nel corpo che tutto l’essere è squassato dall’estasi divina, che lo spirito è visibile, palpabile e dilaga nel mondo? Bernini fa ribollire il panneggio senza alcun rapporto con l’anatomia sottostante, per farci capire che quello è il movimento dell’anima. Cafà invece conserva un nesso naturale tra corpo della santa e panneggio, solo lo fa gonfiare un poco da un vento celeste, quello che basta perché continui la nuvola, le cui onde grezze diventano l’ondeggiare polito della tonaca in un movimento ascensionale, sottolineato dalla gamba destra piegata. La Santa Teresa del Bernini è in una nicchia profonda, che il frontone convesso smarca radicalmente dalla nostra dimensione,  visione che dobbiamo contemplare ma a cui siamo estranei, evento eccezionale che riguarda una creatura eccezionale. L’Estasi di Santa Caterina è su un fondo piatto, il formato è rettangolare, come una finestra che ci permette di assistere al rapimento, senza turbamento e ancora meno tormento, della santa. Il cielo è blu e le nuvole sono nel cielo, come deve essere, come sappiamo che è,  mentre nella Santa Teresa i due pannelli di alabastro nuvolato sono esterni all’edicola, sono un segno, una citazione stilizzata e antinaturalistica. In Cafà il miracolo diventa comprensibile, si umanizza, non è più incompatibile con noi , non ci lascia fuori a contemplare e stupirci. La prova? Nella Santa Teresa c’è spazio per l’erotismo,  non per l’ironia. Nell’Estasi di Santa Caterina  un bozzetto di cera, in collezione privata, mostra  che il putto sotto la nuvola è stato modificato. Ora , ignorando la santa, è occupato a allontanare quella nuvola fastidiosa che vorrebbe ingoiarlo. Mi sembra, insomma, che il portato assertivo, militante della Controriforma vada estinguendo la sua missione e che Cafà potesse dare voce a un’arte più intima, meno drammatica, certo meno gloriosa ma  più commosa e empatica. 

La sua Santa Rosa da Lima rappresenta il dolce abbandonarsi a Dio nella morte;  la Beata Ludovica Albertoni, che pure cronologicamente la segue, ne darà  una rappresentazione ben più tragica e sconvolgente. Il grande talento di Cafà si è spento, per via di un assurdo incidente, troppo presto per dargli una posterità. Se ne potrà più tardi leggere un’eco, sommessa, nell’opera di  Pierre Legros.

 

[1] R. Preimesberger, Cafà Melchiorre, in Dizionario biografico degli italiani , 1973, p. 232.

[2] Incompiuti restano a Roma : Sant’Eustacchio (Sant’Agnese in Agone), San Tommaso di Villanova (Sant’Agostino)

[3] Oltre all’ovvio riferimento alla Santa Teresa (Santa Maria della Vittoria) vanno ricordate le Logge delle Reliquie a San Pietro, per il rapporto tra rilievo bianco su fondo policromo. Di contro, Bernini non s’interesso’ alle pale d’altare scolpite, per le quali il riferimento è l’Algardi.