Mi attraggono quelle rappresentazioni del mondo che evitano il suo aspetto materiale. Immagino che ciò avvenga perché sospetto una natura spirituale delle cose. Naturalmente, nulla è meno sicuro. Non potendo accertare, in nessuna maniera, se l’oggetto del nostro interrogarci esiste – un senso, un disegno, una destinazione – ho scelto con la storia dell’arte d’indagare ciò che è manifesto: la forma che gli uomini danno al loro sentire e interrogarsi. In altre parole, l’esistenza di un dio è incerta, ma il bisogno di divino che provano gli uomini è inconfutabile e si è tradotto in immagini. Ecco perché le rappresentazioni aniconiche, come il betilo, m’interessano.

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Il betilo è una forma astratta, molto spesso una pietra, che rappresenta un dio. Il suo culto è proprio del Medio Oriente e molto verosimilmente deriva dalla caduta di meteoriti, che furono considerati in epoca arcaica come segni inviati dagli dei. In semitico byt-l significa la casa di dio e il greco baytilos (betilo) avrebbe indicato una pietra animata. Pausania afferma che in tempi remoti i Greci adoravano pietre anziché le immagini degli dei. Eschilo e Euripide parlano di Apollo Agyeus come del protettore delle strade e il suo nome veniva dato a una pietra verticale posta davanti alle case con funzione apotropaica. La pietra conica non era però appannaggio esclusivo di Apollo, poiché veniva usata dai greci anche per altri dei, come Dioniso o Atena. Il termine betilo si estende quindi a tutte le rappresentazioni del divino che non hanno forma figurativa, ciò che viene indicato col termine « aniconico ».

Come dimostrato da Milette Gaifman (1), la periodizzazione tra immagini aniconiche perché primitive e immagini antropomorfe perché evolute, proposta dal Winckelmann e dalla critica evoluzionista, é infondata. Questa opposizione sembra piuttosto rifletterne un’altra, nella storiografia : tra noi – greci e romani – e barbari, tra civiltà e primitivismo, tra spirito compiuto e spirito in gestazione. Associare la divinità a una forma astratta, che nega la somiglianza con l’uomo, è la manifestazione di una « alterità » radicale del divino rispetto all’umano, che non può essere liquidata come mero arcaismo. Questa purezza ancestrale nel culto degli dei si rivelerà perfetta per la propaganda augustea.

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Nel complesso di casa e Tempio di Apollo costruito da Augusto sul Palatino il betilo di Apollo compare due volte (2). La sua presenza in ambito romano non è documentata in precedenza(3), quindi la scelta di questo segno, estraneo alla cultura romana, va ricondotta a una precisa volontà di Augusto. Quale?

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C’era un betilo nel santuario di Artemide fuori le mura di Apollonia in Illiria, la città dove Ottavio si trovava a studiare retorica quando fu informato della morte di Cesare. Lì, secondo Svetonio (4), l’astrologo Teogene avrebbe previsto il suo sfolgorante futuro, prosternandosi davanti al giovane diciassettenne e malaticcio. Carrettoni ricorda che c’era un betilo nel golfo di Ambracia vicino Azio, il luogo dove Ottavio trionfa su Antonio e si assicura il controllo di tutto il mondo romano (5). In Italia, immagini aniconiche, dette argoi lithoi e usate come ex voto, esistevano a Metaponto e altre città della Magna Grecia, ma non a Roma. Quando Ottavio adotta il betilo nella sua casa sul Palatino, in un panorama di esclusivo antropomorfismo degli dei, fa slittare intenzionalmente la nozione del dio in una dimensione originale . Apollo non era una novità tra i leader romani, già Mario e Silla era stati identificati con lui sulle monete. Ottavio però, dopo la battaglia di Azio, lo adotta come simbolo di una stagione aurea che segue un’epoca di torbidi e guerre civili. Il dio della razionalità e dell’equilibrio diventa ora il garante della prosperità e della pace. Il betilo presentava allora il vantaggio di essere legato a Apollo e allo stesso tempo inedito a Roma, quindi non associato a altri personaggi pubblici; era iscritto in un’antichità mitica e quindi portatore di valori ancestrali, ai quali Ottavio ostenta di ricollegarsi; infine, immetteva un elemento nobilitante dell’illustre cultura greca ma sufficientemente neutro per essere reinvestito di un’identità romana, come prova l’associazione con la lancia di Romolo.

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Nella sala delle Maschere della Casa detta di Augusto ( in realtà ancora Ottavio) un pinakes rappresenta un betilo in un paesaggio idllico sacrale. Il betilo è qui una sorta di fuso gigantesco al quale sono legate le bende, ai suoi piedi giacciono un flauto di Pan e una faretra, tutti attributi apollinei. Una lancia è appoggiata in obliquo, in modo da essere molto visibile. Questa è , presumibilmente, l’hasta che Romolo lancia dall’Aventino sul Palatino per prenderne possesso e che rappresenta il primo atto di fondazione della città. Quindi Ottavio, che s’insedia intenzionalmente sul Palatino in prossimità della capanna di Romolo, fa della sua nuova dimora il succedaneo di quella e di se stesso colui che rifonda la città. Il betilo accomunava così l’origine mitica di Roma e il segno apollineo della nuova età che nasceva. Li vicino, nel tablinum, nel 39 a.C. Ottavio celebrerà il fidanzamento con Livia vestito da Apollo, in un celebre banchetto in cui i dodici commensali erano mascherati da dei. La carestia del momento fece dire ai romani che gli dei avevano mangiato tutto il cibo della città.

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Nel 28 a.C. viene consacrato il Tempio di Apollo,la cui costruzione il dio stesso avrebbe reclamato, facendo cadere in quel luogo un fulmine. Il tempio era collegato alla casa da una rampa, ancora parzialmente conservata. All’area del tempio appartengono delle celebri lastre fittili dette Campana, esposte nell’Antiquarium del Palatino. Una di esse rappresenta due fanciulle ai lati di un betilo. Significativamente, quella di sinistra ha dei tratti arcaistici, come l’acconciatura, mentre quella di destra è classicizzante. Anche qui il betilo si pone come punto d’incontro tra passato e presente. Anche qui delle bende, una lira e una faretra sono appese al betilo.

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All’originalità iconografica di queste lastre – un’altra rappresenta la competizione tra Ercole e Apollo per il tripode di Delfi, allusiva a quella tra Antonio e Ottavio – non corrisponde un pari livello qualitativo della fattura. Le lastre fittili, la cui massima diffusione si situa appunto nell’età di Augusto, per essere poi sostituite da quelle in pietra e marmo, erano opera delle stesse manifatture che producevano i mattoni (6). Sembra pertanto che l’ideologia augustea si sia espressa in queste lastre, a cui si affidava una funzione prevalentemente di propaganda e non estetica. La composizione stessa, araldica, con figure affrontate, non si vuole narrativa ma iconica. Vari autori, come il Carrettoni e Zanker, ritengono poi che nell’area del tempio esistessero delle rappresentazioni tridimensionali del betilo. Il loro aspetto poteva essere facilmente scambiato per quello di una meta. Una, di provenienza ignota, è conservata nella collezione Torlonia a Villa Albani.

Ecco, ho finito il mio esercizio. Inutile. Se mi sono interessato alla rappresentazione di un dio senza aspetto è perché solo così la divinità mi sembra plausibile. Antichità e Cristianesimo sono figurativi e iconoduli, senza parlare della società globale moderna che vota un culto alle immagini, spesso prive di contenuto. Sono, come noi tutti in Occidente, circondato, assediato, asfissiato dalle immagini. Il betilo era una boccata d’ossigeno. Ma anche una pista. Una forma non umana che, se conosciuta meglio, avrebbe potuto indicarmi la strada che va dagli uomini alla divinità. E invece ho imparato delle cose sui culti arcaici, su Augusto, ma quella strada non c’è. E questo è ancora il migliore dei casi. Nel peggiore, non c’è nemmeno la divinità. Molti anni fa andai a vedere una mostra davvero sinistra al Museo d’Orsay, intitolata “L’ultima immagine”, credo. Era la rappresentazione dei morti attraverso le foto o le maschere funerarie. Ci sono andato con l’idea, ridicola, lo so, che l’ultimo istante della vita potesse rivelare qualcosa del primo di ciò che viene dopo. Naturalmente, non si vedeva altro che un morto. Insomma, tutto ciò che producono gli uomini riguarda esclusivamente gli uomini. E quando gli uomini pensano, pensano sempre e solo l’uomo, anche quando pensano dio. Ora che conosco meglio il betilo sono tornato esattamente al punto di partenza. Insomma, il betilo è la prova che possiamo conoscere molte cose e così passiamo il tempo, dandoci l’illusione che siamo intelligenti e padroni del mondo. Ma, in fin de conti, non serve assolutamente a niente.

Note
1) Milette Gaifman, Aniconism in Greek antiquity, 2012
2) Una terza rappresentazione, nella Casa di Livia, sembra debba essere riferita piuttosto a un santuario di Diana
3) Sebbene Varrone affermi che i primi romani non avevano immagini per gli dei
4) Svetonio, AUGUSTO, VIII, 2
5) G. Carrettoni, 1973, p. 79
6) Stefano Tortorella, Le lastre Campana, in L’art décoratif à Rome, Ecole française de rome, 1979