Io già lo so che non vi piacerà. Tanto per cominciare, mi direte che nel quadro non si vede niente. E’ vero, dipende un po’ dalle cattive condizioni dell’opera, un po’ dalla pessima illuminazione della Galleria Corsini, dove Il Trionfo d’Ovidio di Nicolas  Poussin è conservato. Io invece vi dico che, malgrado un’assidua applicazione nella mia giovinezza ( mutatis mutandis, proprio uno “studio matto e disperatissimo”, è il caso di dirlo), dell’ argomento del quadro, l’Amore, io non capisco niente. A una certa età lo si guarda come il paleontologo di Jurassik Park guarda i resti di dinosauro. E’ un oggetto di studio, col timore però che una particella di DNA sia rimasta viva e generi, improvvisamente, un mostro capace di divorarvi.

Poussin non aveva dell’amore un’opinione migliore della mia, ma lui ha compiuto una scelta più radicale. Lui si è sposato. Perché si era innamorato di una leggiadra fanciulla dotata delle più nobili qualità, direte voi? No, perché aveva preso una malattia venerea. Sensuale come ogni giovane uomo e anche di più, come un intellettuale che usa il sesso per restare attaccato alla terra, l’unica possibile precauzione, a quel tempo,  erano le vesciche di porco. Non mi sento  di fare una colpa a Poussin se ha preferito non servirsene, e si è molto ammalato.

Straniero, si è rifugiato per farsi curare presso un connazionale, il pasticciere Dughet. Dughet aveva una figlia. Poussin, pragmatico  in giovinezza prima di diventare filosofo da vecchio (ma guarda un po’), deve essersi detto che se non voleva più incorrere in simili rischi mortali, evitando al contempo la vescica di porco, una moglie era la miglior soluzione. Detto fatto ( ma aveva già 36 anni) si sposò, nel 1630. Accessoriamente, la ragazza aveva un fratello più giovane che diventerà, dopo essere stato iniziato alla pittura da Poussin, uno dei massimi pittori di paesaggio del Seicento, Gaspard Dughet.

Il Trionfo d’Ovidio è stato dipinto dopo il 1625, anno della morte del Cavalier Marino. Amico e protettore di Poussin, lo aveva presentato al più prestigioso mecenate dell’epoca, il cardinal Francesco Barberini e al di lui segretario, quel Cassiano del Pozzo che resterà il miglior committente romano di Poussin.  Marino é rappresentato come Ovidio, autore dei libri dedicati all’amore sui quali poggia il braccio sinistro.  Poeta laureato e mirtizzato, poiché la testa è cinta da tre corone, una d’alloro e due di mirto, la pianta sacra a Venere.

 

 

 

La sua posa col braccio alzato, cosi’ come l’organizzazione dello spazio, chiuso a destra e aperto a sinistra, sono ripresi dal Bacco e Arianna di Tiziano, che Poussin andava a studiare ogni giorno nella collezione Aldobrandini. Tutto nel quadro è un omaggio ai Baccanali di Tiziano, dalla posa di Venere addormentata agli atteggiamenti degli eroti. Eppure…il colore non è più quello, non è cioè più quel venetismo del giovane Poussin che vediamo nei quadretti  della Galleria Barberini. Non c’è più la seduzione esercitata dal mondo, quella colta dai sensi, né il desiderio dei corpi, come in Ninfa scoperta dai Satiri, alla National Gallery. Non dipinge più per comprendere cio’ che lo turba,  ormai sente di poterlo affermare, anzi, insegnare.

Un putto seduto in primo piano stringe un nodo, perché l’amore è unione, certo, ma per questo anche vincolo. Vicino, come uno Charlot inconsapevole, un altro gioca a palla col mondo, poiché  non c’è gioco – gioco appunto,  che nel dizionario dell’epoca era definito “spassetto, burla”  –  più universale dell’amore. Dietro, si tiene una gara di tiro con l’arco. Stavolta il bersaglio non è la capacità di vedere, come nella Caccia di Diana del Domenichino, ma un cuore rosso, l’arte d’infiammare l’anima dell’amato. In fondo guizza una scintilla, che due putti cercano d’afferrare. E’ da quel barbaglio che nascerà una fiamma grandissima.  Un fratellino goloso spreme il latte dal seno di Venere addormentata. Un altro si affaccenda su una pietra per appuntire la freccia, ahimè, di piombo.  Ovidio c’insegna che, toccati da quella, resteremo insensibili all’amore bruciante di chi, invece, è stato colpito dalla freccia d’oro. Ma questa giace al suolo, abbandonata. E Venere, la madre di tanti furfanti giocondi, che fa?

 

 

Venere dorme, nella posa di Endimione. Offerta al nostro sguardo, oggetto del nostro desiderio, Venere è assente, ignara di ciò che i suoi  figli tramano contro gli uomini, giochi crudeli.  Come Endimione non potrà mai rispondere al desiderio di Selene, così Venere non esaudirà il nostro, risibile sogno di felicità. Anzi, ignora tutto di noi, perché non c’è prospettiva divina in Poussin, solo gli uomini e il senso drammatico del loro destino.  E di questo destino, per Poussin ancora giovane, l’amore è il motore primordiale. La freccia attraversa l’Aria, la scintilla è Fuoco, il mondo è la Terra e il latte è il liquido, l’Acqua. I quattro elementi che costituiscono la vita sono attivati, accesi, innescati dall’amore. Quanto agitarsi, inseguire un sogno, prendere lucciole per lanterne, affilare armi che faranno soffrire noi e gli altri. Ve l’avevo detto che non vi sarebbe piaciuto.

Va bene, non è che finisca proprio così, Poussin quando ha dipinto questo quadro  aveva solo trent’anni. A Roma, dove ha passato la vita, non resta quasi più niente di suo. Andate alla Galleria Barberini a vedere quell’altro quadretto, fatto da vecchio, con Agar e l’Angelo. La natura é immensa, fredda e grandiosa, unica protagonista del mondo.  Agar è una comparsa, appena visibile, sola, minuscola, derelitta, e l’angelo è dipinto come una nuvola, a fondersi col cielo. Anzi, forse non c’é. Passata l’età degli amori,  che nascono da una coscienza  prorompente della nostra individualità e della felicità che ci è dovuta, è dolce  abbandonarsi, particelle perdute, immaginando di scorgere, talvolta, un segno che indichi almeno un pozzo dove dissetarsi e, magari, la destinazione.  Sarà un angelo o solo una nuvola?