La scala elicoidale del Bramante in Vaticano é un’opera audace e emozionante.

E’ la capostipite di tutte le scale elicoidali che seguiranno, da quelle manieriste (il Vignola a Caprarola e Piacenza, il Mascherino al Quirinale), barocche (Borromini a Palazzo Barberini), sino al Settecento (lo Specchi a Palazzo de Carolis).  La sua ambiguità la rese esemplare per gli architetti anticlassici e la rende  magnetica ancora oggi per noi.

Giulio II commissiona al Bramante una scala che permetta di raggiungere il Cortile delle Statue  (attuale cortile ottagono) e la villa di Innocenzo VIII, senza attraversare il Palazzo Apostolico e il cortile del Belvedere.  Dev’essere quindi una scala funzionale, destinata principalmente ai visitatori che si recano alla villa in veste privata. Infatti, sotto Giulio II la villa non é più riservata  al solo papa. Umanisti e eruditi visitatori vanno a studiare i capolavori antichi che vi si conservano, come il Laocoonte, e artisti sono alloggiati nei primi due piani della villa. Lì abiterà Bramante stesso, si appronteranno stanze per Leonardo e più tardi anche Michelangelo salirà la scala elicoidale per raggiungere il suo appartamento.

 Bramante deve averla iniziata già nel 1507 ma morì nel 1514 – un anno dopo Giulio II – senza averla completata. Un disegno di Maarten van Heemskerck del 1532 ci mostra dei visitatori che salgono dalla campagna verso la torre che contiene la scala, ancora incompleta. A metà Cinquecento, delle strutture difensive ne limiteranno l’accesso e la scala perderà la funzione di collegamento con l’esterno, conservando solo quella di servizio ai piani della villa. Dopo i radicali  rimaneggiamenti del XVIII secolo per la costruzione del Museo Pio Clementino, oggi la scala del Bramante é l’unico elemento rimasto intatto a ricordare, al Belvedere, quell’ età straordinaria di titani,  Giulio II, Bramante e Michelangelo.

 

 

 

Disegno anonimo, 1720 circa. Mostra  la pianta quasi inalterata della villa di Innocenzo VIII e il rapporto con la scala del Bramante, a destra.

 

 

 

Disegno di P.M. Letarouilly, 1882. Mostra il Museo Pio Clementino con le modifiche apportate alla villa e l’emarginazione della Scala del Bramante.

Una spoglia torre in laterizi a base quadrata contiene  un cilindro cavo nel quale si svolge, su 21 metri d’altezza (1) una spirale. Ogni giro possiede otto colonne, meno l’ultimo, che ne ha quattro. Bramante divide il cerchio in otto settori circolari e pone le colonne all’intersezione tra i loro raggi e la circonferenza.  Le colonne, secondo i precetti vitruviani, saranno di ordini diversi – tuscanico, ionico, composito – a mano a mano che si sale. Il principio é quindi eminentemente classico, basato sull’uso di solidi geometrici :  la torre é un parallelepipedo, la scala un cilindro, il cerchio é diviso per un multiplo di 4. La sovrapposizione degli ordini é rispettata. Riconosciamo qui l’architetto che aveva già realizzato il Tempietto e il chiostro di Santa Maria della Pace.

A questo punto interviene l’invenzione geniale. Nel cilindro viene inserita una spirale (2).   Cioè una forma che, avvitandosi, esprime l’idea del movimento ascensionale e, tendenzialmente, infinito. Stavolta l’idea non é affatto classica. Alla firmitas statica si oppone un concetto dinamico, all’idea di limite implicito nella norma classica si risponde con l’elica che non ha inizio né fine. Chi veniva dall’esterno, dalla Valle dell’Inferno, da Prati, lasciava la realtà e veniva risucchiato in uno spazio sbalorditivo perché razionale e ipnotico allo stesso tempo, limpido ma iniziatico, perché conduceva al luogo – il Cortile delle Statue – dove il rappresentante di Dio su terra conservava le statue antiche, l’eredità del più alto momento della storia umana.

I problemi tecnici e stilistici erano immensi. In una spirale non c’é separazione tra i piani, quindi i tre ordini di colonne sono posti nella continuità con, ad esempio, lo ionico affiancato al tuscanico. L’altezza dei piani era comandata dal passo della spirale, quindi Bramante non può modulare l’altezza delle colonne. Gioca invece sul diametro dei fusti, che si assottigliano mano a mano che si sale. Secondo Frommel, nella prima  colonna tuscanica il rapporto tra diametro e altezza del fusto é di 1:5, nell’ottava composita di 1:8.

Ciò produce in chi sale e guarda verso l’alto un effetto di aspirazione, con le linee di rastremazione delle colonne che convergono tutte verso un unico punto di fuga, la sommità della scala, che verosimilmente Bramante aveva concepito aperta.

Le colonne si appoggiano, in alto e in basso, contro la curva dell’elica. Bramante dovrà raccordarle con dei cunei triangolari (3).

 

 

Gli ordini cambiando senza soluzione di continuità, l’architetto non poteva optare per un fregio dorico piuttosto che ionico. Né voleva con ovuli e modiglioni dare autonomia alla trabeazione (4). Questa non é un elemento decorativo o  una terminazione, é la scala stessa, la spirale che si  materializza in una fascia neutra e continua. La fascia costituisce al contempo la base, nel segmento inferiore, e la trabeazione, in quello superiore, delle colonne. La sua larghezza é eccessiva per una trabeazione canonica, ma questo nastro che si srotola diventa la volta della rampa e quindi la sua altezza era anch’essa comandata. Sebbene chi sale abbia l’impressione di un volume continuo e armonioso, a ogni giro Bramante ha dovuto aggiustare i calcoli, apportando invisibili modifiche nelle misure. Basti guardare la forma trapezoidale dei capitelli, con l’abaco che s’incurva per adattarsi alla trabeazione obliqua, o le volute dell’ordine ionico.

Queste sono ribattute verso il basso e compresse, altrimenti, perpendicolari alla scala, avrebbero rappresentato un asse visuale concorrenziale a quello della salita, incrinando l’effetto di armonica continuità.

Ciò che non é più classico qui é l’adozione di una forma che non parte dall’imitazione della natura  ma da un modello mentale, un artificio dove l’arte suprema dell’architetto simula lo svolgimento « naturale » della scala, correggendo ogni volta la realtà perché s’identifichi con l’idea. E’ questo l’aspetto che colpirà gli architetti, Serlio, Vasari e Palladio (5), che a proposito della scala parleranno di artificiosità, ingegnosità, singolarità, tre aggettivi che ben si addicono alla poetica manierista.

Purtroppo oggi il visitatore (6)  vi accede già al terzo livello, dalla sala dell’Apoxiomenos. Non può quindi percorrerla dall’ingresso, con la sua entrata metafisica,  dove una colonna tuscanica isolata non permette d’immaginare l’apparizione improvvisa e  vertiginosa della scala. Né scopre, al livello superiore, la porta della cella vinaria, stondata a proposito per farvi passare le botti. Né trova più, al livello di accesso al Cortile delle Statue, le statue nelle uniche nicchie della scala, concepite da Bramante come araldi dei sommi capolavori che, usciti dalla coclide chiusa, sarebbero apparsi. Ma soprattutto, la morte di Bramante ci ha privato per sempre della soluzione di questo enigma.

Alla morte del papa nel 1513 le colonne sono collocate sino alla trentaduesima, come confermano le foglie di quercia, emblema del papa della Rovere, sui capitelli. Nel 1514 muore Bramante. Qualcosa deve essere successo, perché gli ultimi  fusti  si mischiano, non  seguono più il progressivo assottigliarsi ma fusti più larghi seguono altri più stretti. E quelle ultime quattro colonne in cima, che rompono inspiegabilmente il ritmo perfetto di otto, quel finire così, cieco, irrisolto, concettualmente vacuo: non poteva essere questa la soluzione scelta dal Bramante. Non la conosciamo o forse, non si può escludere, lui stesso non la trovò mai, vittima di un’invenzione troppo ambiziosa. Certo che la torre che contiene la scala doveva essere più bassa.  Perché così alta copre le merlature del palazzetto d’Innocenzo VIII. Sappiamo che l’ultima parte della muratura fu realizzata sotto il Peruzzi, con una tecnica diversa. Resta il dubbio di cosa  Bramante avesse immaginato per terminare il movimento infinito dell’elica. Certo, nel percorrere questa scala abbagliante, docile ma superba di genio, viene in mente ciò che  Charles Garnier disse quando vide il Partenone: “Ora ho capito. Nella vita, bisogna essere Dio o architetto”.

 

Note

  • 1) Non sappiamo con certezza di quale unità di misura si sia servito Bramante. E’ probabile si tratti del piede romano. Il diametro del cilindro é 30 piedi (metri 8,86), la larghezza della rampa 10, il vuoto centrale ha anche un diametro di 10 piedi.
  • 2) Naturalmente la scala elicoidale non é un’invenzione di Bramante. La scala a chiocciola si adatta ai volumi piccoli, dov’era usata come scala di servizio. Ne esistevano nel Medio Evo anche in Francia e in Spagna. Queste scale pero’ non erano a vuoto centrale ma si appoggiavano a un pilastro, né erano dotate di ordini. Bramante aveva già disegnato una piccola chiocciola, appunto di servizio, nella sagrestia di Santa Maria sopra San Satiro, a Milano. Secondo Vasari, per la scala del Vaticano l’architetto fu ispirato dalla torre di San Nicola a Pisa.  Per Palladio, invece, Bramante s’ispiro’ alla Cripta Balbi, dove Peruzzi aveva disegnato tre scale elicoidali. Non esiste nessuna prova archeologica di queste scale, che sono probabilmente un’ipotesi del Peruzzi.
  • 3) Tecnicamente, degli scamilli
  • 4) Per questa stessa ragione la parete esterna della scala è solo una fodera, senza cornice né paraste, a proiettare sul muro le colonne. In questo modo nulla porta verso l’esterno lo sguardo, che è invece catturato dal vuoto centrale. Noi ci muoviamo sulla scala, ma è Bramante il burattinaio.
  • 5) Per Palladio questa scala era il capolavoro del Bramante.
  • 6) Visitatore privilegiato, perché la scala non fa parte del normale circuito di visita dei Musei Vaticani.